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Comunicare dopo la Gara
Rubrica di Psicologia dello sport
a cura della Dott. Cristiana Conti

 

Quando e come chiedere al figlio atleta


Quando una partita finisce emergono tante emozioni. La loro natura ed intensità è in relazione sia all’esito della gara (risultato), che al modo con cui l’atleta sente di averla condotta (indipendentemente dal risultato finale di squadra, come ho giocato? ho espresso le mie potenzialità?). Ma è certa una cosa: le emozioni che seguono una sconfitta e quelle che seguono una vittoria non sono le stesse.Quando una partita finisce emergono tante emozioni. La loro natura ed intensità è in relazione sia all’esito della gara (risultato), che al modo con cui l’atleta sente di averla condotta (indipendentemente dal risultato finale di squadra, come ho giocato? ho espresso le mie potenzialità?). Ma è certa una cosa: le emozioni che seguono una sconfitta e quelle che seguono una vittoria non sono le stesse.
Quando mi confronto con i giovani atleti, molti di loro evidenziano la necessità di non entrare immediatamente in comunicazione subito dopo la partita, specialmente quando non è andata particolarmente bene. Chiaramente quando si vince si è più leggeri e anche più desiderosi di parlare dell’ “impresa” appena compiuta, ma, anche in questo caso, oltre all’accogliere e al rafforzare le emozioni positive, l’analisi della partita può attendere. 
Se il tecnico inizia ad essere un po’ più formato ed “istruito” da questo punto di vista, grazie anche alla costruzione di prassi ben precise (ad es. parlare della partita quando si inizia l’allenamento successivo), spesso il genitore è più “disorientato” rispetto a cosa fare /non fare in questi frangenti. Può capitare che, pur muovendosi con i migliori propositi, paradossalmente, il punto di vista e i bisogni dell’atleta rimangano un po’ in secondo piano. Come sempre va fatta una premessa: ogni famiglia ha una struttura, regole e modalità specifiche e peculiari e quelli che seguono sono esclusivamente suggerimenti per riflettere secondo un’altra prospettiva ed eventualmente integrare al proprio modus operandi.
Il genitore è fisicamente la persona con cui più spesso si trova da solo l’atleta dopo una gara, ad esempio quando si rientra in macchina o nel momento immediatamente successivo di pranzo/cena. Spesso succede che, appena si può, si inizia subito a chiedere e parlare con il proprio figlio della patita, ma lo si fa in un momento che è ancora troppo “caldo”. 
Di base ci sono le migliori intenzioni: il voler sostenere il proprio figlio, il voler “sdrammatizzare” la sconfitta, il voler fargli sentire la propria vicinanza, il voler evidenziare l’importanza di analizzare la partita come abitudine al miglioramento, indipendentemente dal risultato. Tutti aspetti giusti e comprensibili, ma l’aspetto temporale è da considerare perché può fare la differenza: una stessa comunicazione detta in momenti diversi può essere ascoltata con attenzione oppure essere ignorata e avvertita come “invadente”. 
Per capire se siamo nei tempi giusti, ragioniamo proprio a partire dalle principali motivazioni che ci portano a parlare dopo una gara considerando il caso della sconfitta. Immaginiamo che nostro figlio abbia appena concluso una partita in cui, con la sua squadra, ha perso. 
Cerco di parlare quanto prima perché voglio aiutarlo a sdrammatizzare?  Senza dubbio ci sono cose ben peggiori di una sconfitta sportiva, ma ciò non toglie che per un atleta è un momento molto importante e questo valore va rispettato. Se si è impegnato, ha dedicato i suoi sforzi in gara e il suo tempo in allenamento, è normale che un risultato insoddisfacente produca emozioni negative. Chi sarebbe felice e spensierato dopo un esito negativo di una prova che lo ha visto coinvolto? Un genitore deve chiaramente riportare al proprio figlio su quali siano le priorità e le cose per cui “drammatizzare” o meno, ma nel momento giusto. Chiaramente è diverso se si osservano nel giovane atleta manifestazioni comportamentali estreme, nocive o irrispettose nei propri o nei confronti altrui legate alle emozioni del post gara. In questo caso è doveroso intervenire sul momento.
Cerco di parlarci subito perché voglio motivarlo e fargli capire che anche le sconfitte insegnano? Ottimo motivo: lo sport è fatto di up & down, di vittorie e di altrettante sconfitte. Quanto prima un atleta sposa questa prospettiva, tanto meglio saprà interpretare un esito negativo. Ma anche in questo caso, vale il discorso che abbiamo fatto rispetto al precedente punto: se le emozioni sono calde, la prospettiva di ragionare si abbassa. Inoltre, il saper tollerare una frustrazione è un apprendimento per la vita importantissimo. E’ vero, una sconfitta -se interpretata e capita- ci può insegnare tanto, ma serve farlo quando si posso inquadrare le cose con razionalità.  Apprendere da una prestazione scadente o da un errore è un’abilità senza dubbio significativa per un atleta.
 Ultimo, ma non per importanza: cerchiamo di parlare immediatamente per far sentire a nostro figlio che gli siamo vicini?  Qui c’è da ricordarsi che il comprendere i tempi dell’altro è un grande segnale di vicinanza. E’ fondamentale sentire il genitore vicino e dalla propria parte. Un figlio si aspetta che egli sia un suo sostenitore e un punto di riferimento non trascinato esponenzialmente dalle emozioni del momento (anche se è normale sentirsi coinvolti emotivamente durante una gara giocata dal proprio figlio). Un appoggio in grado di contenere e sostenere, una presenza stimolante ma non oppressiva. 
Che si instauri il giusto canale comunicativo tra atleta e genitore è decisivo, ma come sempre, ricordiamoci delle modalità, dei tempi, di ciò che io-genitore metto in quella determinata comunicazione (i miei bisogni, le mie aspettative, le mie emozioni) e  dell’altro a cui voglio parlare (i suoi bisogni, le sue aspettative, le sue emozioni).

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Rubrica di Psicologia dello Sport a cura della Dott.ssa Cristiana Conti

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